Comincio con la maglia a maniche lunghe, poi passo a maniche
corte con manicotti, poi via anche i manicotti. Un clima di
grande incertezza metereologica caratterizza – sul piazzale
della Caserma Piave di Orvieto – l’attesa del via
della 15^ edizione della Gran fondo degli Etruschi. Alla
fine quasi tutti i 400 partecipanti optano per la tenuta
leggera. E in effetti, durante la corsa non pioverà mai: l’acqua
arriverà dal basso!
Si parte su discesa asfaltata: gran puzza di ferodi, ma va tutto
liscio. Appena imboccato lo sterrato vedo mio fratello Guido 30
metri davanti a me. Lo raggiungo e provo a chiacchierare per
stemperare la tensione. Ovviamente dico cose senza senso. Siamo
su solida breccia di calcare, ma la prima buca con acqua mi fa
subito capire l’aria (o meglio l’acqua) che tira. Via
subito gli occhiali (inservibili) e prepariamoci al
peggio. Si viaggia a 37/38 km/h. Vedo davanti i Ktm e la maglia
tricolore del campione nazionale. Curiosamente siamo ancora nel
gruppo dei primi. Optando di continuo tra schivate da brivido e
tuffi speranzosi, arriviamo a un piccolo guado. Senza grande
fiducia avanzo tra i pietroni e, nonostante il rapportone, ne
esco con dignità. Nel frattempo Guido è scomparso; saprò molto
più tardi della sua ammucchiata e del suo ginocchio gonfio e
tumfatto. Anche gli altri due amici con cui abbiamo raggiunto
Orvieto la mattina presto sono scomparsi nelle retrovie. Ok,
sono solo, diamoci da fare e cerchiamo di uscirne con dignità
.
Curva secca a sinistra ed ecco la salita. I primi…scompaiono.
Cerco di trovare un ritmo dignitoso ma non è facile: seduto mi
sento un pò “chiuso”, in piedi slitto e saltello (a quando una
forcella bloccabile?). Vedo una ragazza minuta pochi metri
innanzi a me. La raggiungo mentre dal pubblico la informano che
è la prima delle donne. Non male, penso, ma sbagliano (oppure si
tratta di una pietosa bugia): lo scoprirò qualche ora più tardi.
Si scende. Comincia il fango ma va tutto bene fino a che non mi
devo fermare incolonnato dietro 8-10 bikers. C’è il guado di un
fosso (eufemismo per fogna a cielo aperto). Un esagitato supera
la fila appiedata e si infila di testa nell’acqua maleodorante.
Nessuno ne saprà più nulla. Si attraversa una cava spettrale e
si esce su asfalto. E’ la salita lunga ma pedalabile di Torre
Alfina. Ancora una volta maledico la forcella. Una ventina di
minuti di passione e sono in cima. Da Orvieto sono circa 30 km.
Di acqua (intendo quella da bere) neppure l’ombra. Arriverà più
avanti, per fortuna ho “gestito” bene la borraccia.
Si entra nel bosco. Bello, pianeggiante, c’è una signora che va
a funghi e… c’è un po’ di fango. Ops, aumenta il fango. Ops, si
comincia a derapare. Ecco una fattoria…ed ecco il solito
cagnaccio. Accelero, cioè, scappo. Curva secca a destra nel
fango, scivolata con crampi a tutte e due le gambe. Arriva il
bastardone e ….mi lecca la mano!
Da qui in avanti è un calvario. Tanto fango, tante pozze, il
cambio lavora male. La catena si blocca tre volte spedendomi
ogni volta disteso nella mota. Qualcuno che sulla salita
ansimava mi supera a doppia velocità (io li odio questi
maledetti bikers).
“Discesa pericolosissima” dice un cartello: scendo e mi sento un
coniglio. Riparto e sul ripido squilla il cellulare. Che faccio,
me ne frego? E se fosse il fratellino in difficoltà. Guardo il
dispay e vedo il nome di un amico milanese: io li odio i
milanesi! Sempre inopportuni. Riparto ma continuano i sorpassi.
Ormai saranno una ventina: non faccio in tempo ad abituarmi alla
maglietta di chi mi precede che subito la vedo sparire nel
bosco.
Vabbè, cerchiamo di andare al traguardo. Ecco una forra con un
salto di 15 metri, ed ecco puntualmente un cretino del pubblico
che mi informa che i primi non sono scesi dalla bici. Io invece
scendo, mi calo nell’orrido, ne approfitto per far pipì e
liberarmi di qualche etto di didò dalle scarpe e riparto. Curva
a destra e strappo al 20%. Provo a mettere il montino che,
ovviamente, non ne vuole sapere. In un impeto di orgoglio spingo
forte sulla corona media e supero 4 o 5 disgraziati sfrullinanti
(mi ripasseranno appena ricomincerà
il triste binomio fango-discesa. Guardo il
contachilometri: 48 km. A detta dello starter dovrebbero essere
62. Piego la testa in un moto di rassegnazione e ricomincio a
schiaffeggiare i muscoli crampati. Poi uno spettatore mi dice
che manca poco. Io penso sì, manca poco alla tua morte per
soffocamento. Salgo su un ciottolino con 4 o 5 bikers davanti a
me. Potrei superarli, ma penso “che lo faccio a fare, tanto poi
mi sverniciano in discesa”. E invece lo spettatore aveva
ragione: entriamo nel paese di San Lorenzo. Allora almeno decido
di superarlo. Mi alzo sui pedali e chiudo il mio impegno con la
famosa dignità tanto ricercata. Arrivo pedalando senza mani
salutando il pubblico che applaude. Una bella cosa, soprattutto,
pensando alla mia posizione finale (128°).
Sul piazzale di San Lorenzo alcuni funambuli della bici
intrattengono il pubblico con virtuose evoluzioni. I ciclisti al
traguardo sono coperti di un fango sottile, nerastro, ormai
rappreso. Capisco
di aver sbagliato tutto, ma sono contento lo stesso.
Marco Baldi
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